Le immagini della Controriforma nel Sebino


Anche l’area sebina fu coinvolta nel processo di rinnovamento promosso dalla Controriforma cattolica. Dalle sedute del Concilio di Trento uscirono alcune indicazioni piuttosto generiche che vennero meglio definite dalle Instructionum Fabricae et supellectilis ecclesiasticae scritte da Carlo Borromeo e pubblicate a Milano nel 1577. Tali indicazioni ebbero una grande influenza anche nei secoli successivi, soprattutto nelle zone più periferiche e difficili da raggiungere.

Le sponde del Sebino furono percorse da Carlo Borromeo nel corso della visita apostolica nel 1575 (in diocesi di Bergamo) e nel 1580 (in diocesi di Brescia). Ne scaturirono indicazioni riguardo al restauro di edifici, al rinnovamento di paramenti e altari; suggerimenti sulla raffigurazione di soggetti sacri e consigli per una regolata devozione. I vescovi Bollani a Brescia e Cornaro a Bergamo, in costante rapporto epistolare con lo stesso Borromeo, furono interpreti della loro applicazione. Un’eco diretta del Concilio si avverte ancora nei successori, soprattutto nell’azione del vescovo di Bergamo Gregorio Barbarigo, che individuò nel Borromeo un modello assoluto da seguire.

Il primo effetto della riorganizzazione ecclesiastica fu la razionalizzazione dei confini delle parrocchie, alla luce delle distanze, dei cambiamenti demografici e dell’effettivo decadimento di alcune pievi piuttosto isolate. Ampio spazio e attenzione furono riservati, dal Borromeo, alle confraternite e ai relativi altari. Dal primo concilio provinciale milanese del 1565, cui seguirono i sinodi diocesani di Bergamo (1568) e di Brescia (1574), emerse l’importanza attribuita alla Congregazione del Santissimo Sacramento per ribadire la centralità dell’Eucarestia, ma anche per dotare ogni parrocchia di una solida base organizzativa e di controllo. Questo determinò l’istituzione degli altari della Dottrina Cristiana o del Santissimo Sacramento, individuati come luogo privilegiato per la catechesi e per la diffusione della giusta norma religiosa scaturita dalle sedute tridentine e declinata nei Concili provinciali. I membri della confraternita si dovevano occupare del decoro dell’altar maggiore e della cura della chiesa, venendo a costituire la struttura portante della parrocchia.

Anche le confraternite del Santo Rosario, presenti dal primo Cinquecento, conobbero una rinnovata diffusione dopo la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571), attribuita alla particolare intercessione della Vergine, e all’istituzione della festa del Rosario (1573).

Il Sebino occidentale era celebre per le cave di pietra scura (in località Leède e Bögn), assai simile alla più pregiata “pietra di paragone” utilizzata come fondo per scagliole e commessi marmorei. Nel 1671, a Riva di Solto si trasferirono i Silva – poi chiamati Selva – che importarono l’altissimo artigianato dei tagliapietra della Val d’Intelvi, sfruttando proprio l’abbondanza di materia prima, cui si aggiunse la pietra di Sarnico e il marmo della non lontana Rezzato. I vertici di quest’arte si raggiunsero dopo che i fiorentini Corbarelli ebbero realizzato gli altari dell’abbazia di San Paolo d’Argon (1690), fornendo i modelli per tutte le mense della zona. Ne sono prova gli altari delle chiese di Riva di Solto e di Tavernola, ma anche di quelle che salgono verso la Valle Camonica e della sponda bresciana del lago.

La specificità riconosciuta agli artisti operanti a Brescia e Bergamo tra Quattro e Cinquecento è l’attenzione agli aspetti comunicativi dell’arte, intesi nel loro valore devozionale. Se la schiettezza del messaggio di Romanino a Tavernola e a Pisogne non poteva avere la totale approvazione delle gerarchie ecclesiastiche dei decenni successivi, poco inclini all’estremizzazione degli aspetti umani e popolari della storia sacra, accoglienza ben diversa ebbe lo stile intenso e profondamente più “decoroso” del bresciano Moretto e del bergamasco Moroni, suo allievo. La loro chiarezza, nel colore e nell’impostazione, unita alla pacatezza e alla gentilezza dei gesti, era in netto contrasto con gli esiti più affettati e innaturali del manierismo, la cui artificiosità non fu mai amata in ambito sebino. Il bergamasco Giovanni Paolo Cavagna costruisce le proprie opere all’insegna di una chiara definizione delle figure e dei gesti, talvolta con esiti neoquattrocenteschi e neomoretteschi, e alcuni suoi dipinti diventano un esempio di arte pienamente controriformata, prima ancora nella forma che nel contenuto: la Deposizione di Cristo nella parrocchiale di Vigolo, il Battesimo di Gesù in San Martino e l’Annunciazione nel Santuario della Torre a Sovere; al figlio Francesco si deve invece la Madonna col Bambino e santi nella parrocchiale di Sarnico. I manieristi bresciani ricalcano alcune figure di Moretto in un’impostazione quasi paratattica, in un’estremizzata esigenza di chiarezza, come Orazio Pilati nella Vergine in gloria con i santi Francesco, Domenico e Caterina in San Zenone a Sale Marasino (1550 circa).

Al pittore si chiedeva di comunicare un messaggio esente da ambiguità; una certa didascalicità è spesso bilanciata dalla forza espressiva o dalla dolcezza rassicurante dei volti dei personaggi. Negli anni Sessanta del Cinquecento, Pietro Maria Bagnatore dipinge il Cristo risorto con angeli che reggono i simboli della Passione per l’antica parrocchiale di Marone, in cui un Cristo umanissimo mostra al fedele una grande croce e gli angeli esibiscono gli strumenti del supplizio; non c’è spazio per equivoci, la pittura spiega letteralmente un momento cruciale della storia sacra. Il dogma e le persone della Trinità cattolica sono inequivocabilmente individuate nella bella tela con la Trinità in gloria della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Pregasso, riferibile a Ottavio Amigoni (1650 circa), dipinto didascalico quanto emozionante nel cupo colore del cielo, nel gesto di Dio Padre che abbraccia la croce, significando la consustanzialità con Gesù morente. Il Concilio di Trento pone il dogma eucaristico – aspramente criticato dai protestanti – come punto focale dell’edificio sacro. Nello stendardo con San Cristoforo per la parrocchiale di Siviano, Amigoni raffigura due angeli che reggono un’ostia luminosa per far capire che il fanciullo sulle spalle del gigante è Cristo; le figure angeliche, persino sproporzionate, affermano con grande evidenza la funzione dell’ostensorio e della particola come presenza reale di Gesù. In questo senso vanno interpretate le numerose tele con l’Ultima cena, tra cui quelle di Antonio Gandino a Zone, di Cavagna a Lovere, ma anche l’Istituzione dell’Eucarestia a Siviano (1651) del solito Amigoni: quei pittori si confermano così come i maggiori interpreti delle istanze della Riforma cattolica in ambito bresciano e bergamasco.

La venerazione dei santi – della quale i protestanti negavano il valore – è oggetto di grande attenzione. L’esempio più significativo è un bel dipinto di provenienza ignota ma conservato dal 1947 nella parrocchiale di Predore, raffigurante la Madonna col Bambino e san Felice da Cantalice, il primo frate cappuccino salito all’onore degli altari (1625); una simile rappresentazione era necessaria per conferire maggior valore morale alla predicazione.

Carlo Borromeo, morto nel 1584, beatificato nel 1602 e canonizzato nel 1610, divenne letteralmente il volto della Riforma. La diffusione capillare della sua immagine fu la testimonianza della presenza di Cristo e nella Chiesa e nei suoi prelati. La necessità di avere segni tangibili del suo passaggio resta nella leggenda delle impronte lasciate dal Borromeo su un masso presso San Pietro di Pregasso a Marone e nel dipinto dei Fiammenghino con l’ingresso di San Carlo Borromeo a Sale Marasino (parrocchiale di Sale). In San Pietro in Lamosa, presso Provaglio d’Iseo, la Pala del Rosario di Francesco Giugno celebra i protagonisti della battaglia di Lepanto (1571); la sua figura all’estremità della tela, appare ormai come necessaria nel celebrare il trionfo della Chiesa.

 

Fiorenzo Fisogni

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